di Pietro Spirito IL PICCOLO
Durante la Decima battaglia dell’Isonzo, tra il 12 maggio e il 5 giugno 1917, nell’arco di una sola giornata le artiglierie italiane riversarono sui suoi contrafforti un milione di bombe. Tra le varie rappresentazioni che sono state realizzate di quell’inferno, c’è in particolare un quadro di A. Malipieri, conservato al Museo del Risorgimento di Roma, che dà un’idea abbastanza precisa di cosa dovevano essere i combattimenti su quelle alture: nugoli di aeroplani in volo sullo sfondo di un cielo grigio e fumoso, un cielo da tempesta, con gli apparecchi in picchiata come tante mosche intorno a una ferita aperta, quale appare, più sotto, la terra brulla disseminata di cadaveri dove predomina il colore rosso del fuoco e del sangue. Nel corso della guerra più di centomila uomini persero la vita lassù, proprio alle spalle di Trieste, una carneficina che oggi, a cento anni dall’inizio del primo conflitto mondiale, possiamo osservare con attento stupore come una delle pagine più sanguinose di quel macello. Ma il Monte Ermada (o Hermada) è qualcosa di più di uno dei luoghi-simbolo della Grande Guerra: è un posto circonfuso dal mito, una specie di Masada di queste terre, la fortezza invitta dove si infranse inutilmente il mare in tempesta della Storia, un argine posto a crocevia di tre mondi, lo slavo, l’italiano e il germanico.
Perciò assume particolare rilievo, nel gran calderone delle commemorazioni per l’inizio della Prima guerra mondiale, la mostra “Ermada. Gli albori della Grande Guerra”, che si inaugura questo pomeriggio, alle 19.30 (aperta fino al 6 aprile), al Centro d’Arte Skerk di Ternova. Su iniziativa del “Gruppo Ermada Flavio Vidonis” con il “Gruppo Culturale e Sportivo Ajser 2000”, assieme al “Gruppo Hermada Soldati e Civili” (patrocinio del Comune di Duino Aurisina, in collaborazione con la Sezione cavità artificiali dell’Alpina delle Giulie, l’Associazione culturale Rainer Maria Rilke e il sostegno della Bcc di Staranzano e Villesse), Giuseppe Skerk e Massimo Romita, presidenti di associazioni che hanno entrambe nella ragione sociale il nome Ermada, hanno promosso l’allestimento di un’esposizione che si annuncia preziosa: ottanta pannelli con oltre 250 riproduzioni fotografiche, oggetti, cimeli, ordigni e materiali bellici, un plastico interattivo dell’Ermada, cartoline, giornali e carte topografiche del tempo. Particolarmente interessante la collezione, proveniente da un fondo privato, di carte geografiche dell’epoca che illustrano il contesto geopolitico nel quale il conflitto si sviluppò. Ci sono persino le cartine stilizzate dei teatri di guerra (le “Kriegskarte”) che allora erano in libera vendita nelle librerie e nelle edicole al prezzo di 25 pfenning, e che i cittadini acquistavano per avere la percezione visiva di dove erano impegnati i loro cari spediti al fronte: vere rarità che vengono esposte al pubblico per la prima volta (settore curato da Mauro Depetroni). Praticamente tutto un piano della mostra è poi dedicato all’area di Duino Aurisina, a cura di Aureliano Barnaba del Gruppo Ermada. Nella mostra viene anche documentata la lunga azione di recupero, non ancora conclusa, dei luoghi legati alla prima guerra: posti di combattimento e di osservazione, cavità per il ricovero delle truppe, trincee.
Il Monte Ermada, a dispetto del . nome, è una modesta altura che raggiunge l’altezza di 323 metri nella cima più alta, una specie di lunga balconata affacciata sulla pianura friulana da una parte e il mare dall’altra. Al tempo dell’antica Roma di là passava la via Gemina che collegava Aquileia a Lubiana, attraverso San Giovanni di Duino e Medeazza. È sempre stato un punto strategico, abitato sin dalle epoche più remote.
Durante la Grande Guerra, dopo la batosta della Sesta battaglia dell’Isonzo, l’esercito austro-ungarico, una volta abbandonate le alture attorno a Monfalcone si era attestato lì: una fortezza naturale, ricca di cavità e doline in cui trovare riparo, resa ancora più inaccessibile da un sistema di trincee, bunker, appostamenti. Lo scrittore e soldato Friedrich Weber, detto “Fritz”, la definì «l’indomabile bestia». Doveva resistere a qualsiasi costo, perché era la chiave di volta dell’intero sistema difensivo di quella parte del fronte. Nell’arco di poche migliaia di metri erano stati realizzati trenta chilometri di trincee, camminamenti, ripari, osservatori blindati, decine di caverne naturale attrezzate, nidi di mitragliatrice e postazioni d’artiglieria. Un reticolo inestricabile. Durante la guerra gli italiani martellarono incessantemente l’altura da tre lati, soprattutto dai pontoni armati galleggianti di Punta Sdobba, e invano le fanterie tentarono in reiterati, disperati assalti di conquistare la roccaforte.
Di fatto, il Monte Ermada non fu mai espugnato, nonostante i bagni di sangue della Decima e Undicesima battaglia dell’Isonzo. Era l’ultima linea di difesa di Trieste, l’ultimo baluardo contro l’esercito italiano, e se la guerra non fosse finita come finì, chissà, forse Trieste non sarebbe stata presa, almeno non passando di là. Le truppe dell’imperial regio esercito, sempre in numero inferiore alle fanterie italiane, erano composte da soldati sloveni, croati, ungheresi. Uomini dell’entroterra chiamati a difendere la città sul mare, mentre la città, da laggiù, assisteva ai furibondi combattimenti come si guarda un cupo temporale senza fine.
Oggi, soprattutto ad opera di appassionati privati, è possibile ripercorrere buona parte delle fortificazioni dell’Ermada, giusto per avere una pallida idea di quello che doveva essere stato combattere da quelle parti. A differenza di altri santuari bellici, il Monte Ermada non è mai stato eletto a sacrario. Scomodo per l’Italia, che non ne ha mai avuto ragione, e trascurato dall’Austria, per altre ovvie ragioni. Ora la mostra al Centro Skerk offre l’opportunità di rievocare quel luogo e quei giorni, per conoscere più da vicino il respiro di fuoco dell’ «indomabile bestia»
p_spirito (ILPICCOLO)
14 marzo 2014
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